Tag

, , , , ,

Ametto di aver forse sopravvalutato la mia capacità di produrre articoli a un ritmo decente e con regolarità. Vi è che in questi venti giorni ci sono state le vacanze, sono andato in Italia, ho visto amici e parenti, ho fatto corse prealpine in bicicletta, messo in ordine il poco giardino che mi rimane, potato melograni e trapiantato alberi di osmanthus e molestato Tamara, che quando la molesto non mi ascolta, e pagato una montagna di tasse, bollettini e cartelle arretrate. Infastidito dal clima subtropicale di questa strana prima parte di inverno, non ho fatto il rituale tuffo alla Santissima, che invece mi piace fare quando l’aria all’esterno è gelida (o bollente, d’estate). Insomma, di pensare a questo non ho nemmeno avuto la tentazione e le due bozze di articolo che avevo cominciato prima di partire sono rimaste così, al primo paragrafo. Naturalmente, non ricordo in quale direzione avessi intenzione di portarli esattamente, quindi non so bene dove andrò a parare. Inoltre, siamo vicini a febbraio, mese che, in un tempo in cui ancora non avevo idea che avrei finito per interessarmi ai profumi in modo quasi serio, definii ‘mese senza odori’, ripromettendomi di evitarlo programmando un qualche viaggio verso un paese che avesse un febbraio più odoroso.

Vi è che oggi sono tronato alle sudate carte, rendendomi rapidamente conto del fatto che nel giro di pochi mesi dovrò consegnare non uno, ma ben due libri, uno in Italia e uno qui in Inghilterra e che in mezzo ho lezioni da preparare, qualche viaggio intercontinentale e non so bene quanti articoli che ho promesso di scrivere a committenti che non mollano. Insomma, non credo di dovermi sentire in colpa verso il blog, se lo trascuro un po’, ecco.

Adesso che ho svolto la mia captatio benevolentiae, posso quindi parlare dell’argomento originario di questo articolo: Shalimar.

Questo blog cerca di essere quanto più no-logo possibile. La mia politica è quella di sforzarmi di evitare la menzione di marchi, griffe e compagnie a meno che non sia strettamente necessario. Non è una cosa semplice, dato che i profumieri vendono soprattutto un’idea, più che un prodotto, e spesso la personalità di un profumo è indissolubilmente legata al suo nome e alla storia che esso racconta. Non è una scelta politica, questa: in linea di principio, non ho nulla di radicale contro necessità di proteggere in qualche modo, magari flessibile e aperto, quella che oggi si chiama normalmente ‘proprietà intellettuale’. E’, al contrario, una scelta estetica. (1)

Tuttavia, a parte le eccezioni che mi capiterà di concedere, di volta in volta e senza una precisa regola, con alcuni piccoli marchi indipendenti, talora mantenere la una totale inflessibilità di linea risulterà impossibile. Del resto, che mi piaccia o meno, ho deciso di mettermi a giocare con una materia il cui principale motore, oggi – ma probabilmente anche allora (sebbene non sappie precisamente quando) – è un’industria la cui ragion d’essere è non già l’arte, la passione o una seppur embrionale idea del bello, bensì il profitto.

E’, perlappunto, il caso del post di oggi (e di ieri e dell’altroieri, dato che è la terza quarta volta che lo prendo in mano – giusto per riconoscere alla realtà i suoi diritti), uno di quei casi in cui non posso non fare nomi: Shalimar.

Gioia, qualche giorno fa mi ha ricordato una cosa che mi vagava in modo amorfo in testa da un po’. Tra i profumi che hanno lasciato un segno su di me, vi è senza dubbio Shalimar di Guerlain. Ora, a parte il fatto di essere in qualche strano e indichiarato modo legato a Guerlain per educazione profumieristica, ho coltivato a lungo la senzazione che Shalimar, profumo o nonsobenecosa, alloggiasse da qualche parte nelle mie memorie, in una luogo e un tempo che non risucivo bene a definire. So comunque che la prima volta che lo annusai rimasi stupefatto: un profumo così dichiaratamente femminile, anche nel disegno della bottiglia, che però ero in grado di portare con disinvoltura. Ed era una senzazione istintiva, preconcettuale, perché ancora era di là da venire la consapevolezza della classificazioni dei profumi moderni in Fougere, Chypre, Orientali eccetera. Ed oreintale è, quintessenzialmente, Shalimar. Anzi, probabilmente addirittura orientalista, con addosso tutto il peso dei pregiudizi orientalisti, l’esotismo immaginario e lem tante falsificazioni estetizzanti ordinatamente prodotte dalla razionalità del dominio. Non per questo, tuttavia, meno bello – di una bellezza decadente, bugiarda e tuttavia innocente nella sua volontà di manifestarsi.

La storia di Shalimar, costruito intorno al leggendario accorda noto come Guerlinade, costituito da bergamotto, rosa bulgara, gelsomino, fiori d’arancio, iris, tonka e vaniglia (in quantità variabili e dosate second il principio ‘semplicità, sovradosaggio e contrasto’) è una una di quelle storie in grado di scatenare la sensibilità orientalista, o la sua insensibilità, secondo che piaccia o meno. Avrete probabilmente tutti presente il Taj Mahal, icona per l’appunto della sullodata sensibilità nella sua, deproblematizzata, versione da viaggio organizzato. (2) Ecco, il Taj Mahal, come chiunque abbia accesso a google sa benissimo, fu fatto costruire nel XVII secolo da Shah Jahan, imperatore mongolo dell’India, discendente in linea matrilineare da una feroce stripe di guerrieri e razziatori nomadi (la madre di Babur, il fondatore della dinastia, discendeva da Tamerlano), noti ad altre latitudini per aver fatto costruire piramidi con i teschi dei nemici uccisi, aver sterminato intere popolazioni causando carestie e miserie che duravano decenni e aver cancellato in pochi giorni preziosissimi patrimoni librari accumulati in secoli di paziente raccolta.

shah jahan

Gli antenati di Shah Jahan avevano però un’altra caratteristica: normalmente, dopo aver raso al suolo città, dato alle fiamme quello che rimaneva, massacrato le popolazioni e costruito piramidi di teschi intorno alle quali banchettavano con spiedini di montone, scoprivano di essere innamorati delle culture dei soggiogati, molto più forti e radicate della loro propria, diventandone generosi mecenati e generando rinascimenti un po’ ovunque (a sovrani alterni, di solito). La storia edulcorata dal romanticismo neo-orientalista dunque vuole che Shah Jahan, abile condottiero e organizzatore, che ebbe il merito di donare all’India musulmana un certo, relativo periodo di pace e prosperità (3), ordinasse di erigere un mausoleo –  il Taj Mahal, perlappunto – in onore di sua moglie Mumtaz Mahal. Orbene, ci sono pochi dubbi sull’amore di Shah Jahan per Mumtaz. Quello che la vulgata romantica omette, tuttavia, è che quando Mumtaz per qualche ragione non era disponibile, il re aveva a disposizione decine di cortigiane, danzatricie e concubine con cui distrarsi. La sua debolezza per la carne era tale che il suo entourage si chiedeva se avesse qualche altro interesse oltre alle donne. L’avventuriero, militare, commerciante e medico veneziano Niccolò Manucci (4) scrisse, ad esempio, che l’unica cosa di cui sembra curarsi questo Imperatore è la ricerca di nuove donne che servano al suo piacere e che per questo scopo stabilì una fiera nella sua corte dove non era ammesso nessuno che non fosse donna. Vecchia o giovane, povera o nobile, purché fosse bella.

Sia come sia, oltre al Taj Mahal Shah Jahan dedicò alla moglie un’altra cosa straordinaria, cui il fato ha risparmiato la disgrazia della cartolinizzazione che, un po’ come la magliettizzazione di Che Guavara, ha invece colpitoTaj Mahal. Ma qui devo tornare a Gioia, alla quale non posso dedicare alcun mahall, ma solo pensieri e parole (talora anche sconci e prosaici, ma so che la divertono). Ebbene, era l’ultimo giorno di un viaggio di due mesi tra Pakistan e Turkestan cinese fatto nel 1998 e doveva essere novembre. Si era, io e Gioia, a Lahore, che fu per poco più di un decennio capitale dell’impero Moghul. Avevamo visitato un po’ tutto quello che c’era da visitare, ma mancavano i giardini realizzati per volontà  e ordine di Shah Jahan. Ora, per chi fosse digiuno di architettura Moghul, i giardini Moghul sono una via di mezzo tra la nostra idea di parco, un giardino botanico e un palazzo residenziale genericamente ‘orientale’ (qualunque cosa significhi), il cui elemento centrale è l’acqua. Ma proprio tanta acqua, che scorre in canalette di marmo bianco ordinate geometricamente, garantendo freschezza all’occhio, al corpo e alla mente. Immaginatevi tutto questo, su diversi livelli, con terrazze, padiglioni che affiurano dall’acqua, fiori profumati e ucelli esotici, e capirete perché il giardino nella cultura Moghul (ma anche in quella persiana) era spesso cantato dai poeti come un’anticipazione in terra delle gioie del paradiso.

Io, quindi, volevo assolutamente andarci. Vi è che il volo di ritorno era fissato per le prime ore dell’alba del giorno dopo e non c’era molto tempo per prepararsi. In più, Gioia recalcitrava:

–         Non mi sento tanto bene, puoi andarci da sol..

–         Ecco! Mi rovini l’ultimo giorno, la solita pigrizia, non possiamo non andarci altrimenti la nostra progenie rimarrà cieca per sei generazioni e discendenti femmine saranno sterile! E le cavallette cancelleranno dalla faccia della terra il Friuli e mezzo Veneto!

–         Ve bene, uff, vengo!

Io, naturalmente, pensavo fingesse esagerasse, per rovinare deliberatamente le mie velleità estetizzanti: non potevo rinunciare all’idea di distendermi in mezzo alle fontane e ai giochi d’acqua, nella mia shalwar kameez, meditando sulla ruota del tempo e sui destini dell’universo. Era troppo importante, soprattutto per i suddetti destini. Quindi ci recammo ai giardini, dove Gioia si distese, probabilmente, lei sì, meditando sul proprio destino e sulla sfiga che aveva avuto incontrandomi, continuando a fingere di star male, mentre dei mocciosetti impertinenti non smettevano di tirarle pallonate addosso e io ero perso in mezzo alle bellezze del giardino, su una delle terrazze superiori.

Orbene, per farla breve: consumata l’esperienza multisensoriale (la pallonate, intendo), tornammo alla nostra guesthouse, dove le condizioni di Gioia, decisamente peggiorate (anche se io continuo a pensare che fingesse), richiesero l’intervento di un medico (secondo me un cialtrone in combutta con il laido manager della guesthouse), che dopo averle ammministrato una costosissima iniezione di nonsisabenecosa (petrolio, secondo me), si accommiatò bofonchiando qualcosa che più o meno voleva dire che lui come medico era un gradino al di sotto di Dio soltanto, lasciando Gioia in uno stato ancora peggiore di prima. Va da sè che fummo costretti a correre al pronto soccorso, in piena notte e due ore prima del volo, dove mentre i medici cercavano di rianimare un moribondo con un mazzo di chiavi (non chiedetemi perché) e Gioia veniva inflebata, io ho avuto la mia nemesi: mentre spiegavo cosa era successo, all’improvviso (ma davvero all’improvviso) mi sono sentito malissimo anch’io. Diagnosi: sospetta fabbre tifoide, che poi invece sarebbe risultata essere giardia.

Tutto questo per dire che la storia che avevo dentro di me,  che non risucivo a cristallizzare e che Gioia mi ha ricordato riguardo il nome del capolavoro di Guerlain è questa: i giardini del misfatto altro non erano che lo Shalimar Bagh, i giardini di Shalimar:

shalimar

Note:

(1) Che poi una scelta estetica sia anche, allo stesso tempo, una scelta politica è un’altro discorso e la scelta di distinguerle concettualmente attiene proprio al medesimo dominio estetico.

(2) Ovviamente io non ho nulla contro il Taj Mahal, ci mancherebbe.

(3) Finì piuttosto male, secondo me: a Shah Jahan successe non il figlio simpatico e sveglio (anche se probabilmente troppo interessato alle speculazioni dei mistici) Dara Shikuh, designato dal padre alla successione, ma quello grullo e manesco, Aurangzeb, che usurpò il trono manu militari.

(4) Niccolò Manucci è un’altra di quelle figure straordinarie che popolano la storia della scoperta occidentale dell’oriente, nella cui Storia do Mogor (‘Storia dei Moghul’) racconta gli ultimo sei anni del regno di Shah Jahan, di cui era diventato rocambolescamente medico e confidente. Sul suo racconto è basato in parte il bellissimo romanzo storico di Sudhir Kakar, Il trono cremisi.